Alle 15:53 di oggi saranno trascorsi 10 anni da quando il corpo di Amy Winehouse è stato ritrovato, senza vita, nella sua casa di Londra, al 30 di Camden Square. Dieci anni di distanza che hanno curato le ferite della critica e che oggi fanno stringere i suoi fan in una giornata di celebrazione, della sua musica prima di tutto.
Sì, perché la musica è il primo luogo di Amy, sin dai suoi 10 anni d’età. Nello stesso anno in cui i genitori divorziano – il 1993 – e fonda un gruppetto rap “Sweet ‘n’ sour” che fa eco alle americane Salt-n-Pepa. Altri 10 anni ed esce “Frank“ il suo primo album. Amy scrive tutte le tracce contenute nell’album, in cui ci sono anche due cover. “Frank” riceverà 3 dischi di platino e venderà più di un milione e mezzo di copie.
Il successo è in crescita, fioccano premi di grande prestigio. Così fino al 2006 quando arriva l’album che consacra la Winehouse nel Gotha della musica soul. Si tratta di “Back to black“ che arriva al pubblico di tutto il mondo con singoli ultra premiati che escono a raffica per conquistare le classifiche europee e statunitensi: “Rehab“, “You know I’m no good” , “Back to black“, che da il titolo all’album, e poi la divina “Love is a losing game” che entra persino nella prestigiosa università di Cambridge dove viene studiata fra i poemi dei grandi autori inglesi. “Back to black” fa vincere ad Amy 5 Grammy Awards, collocandola nell’Olimpo delle dive, fra Lauryn Hill e Beyoncé.
L’altra metà della luna: alcol, droga, abusi e declino
Sarebbe ipocrita – e forse poco utile – però raccontare la vita e la morte di Amy Winehouse omettendo il grande e grave capitolo dei suoi abusi.
Amy è una ribelle sin da bambina. A soli 10 anni si pratica da sola il primo piercing e i primi tatuaggi. Ma – attenzione – l’essere ribelle ha poco a che fare con gli abusi di lunga percorrenza. Perdersi nelle droghe e nell’alcol non significa certo essere contro qualcuno o qualcosa: c’è una debolezza in Amy che si nutre e cresce nell’adolescenza e fino ai 27 anni.
Dal 2008 inizia il crollo. Se già la cantautrice britannica aveva dimostrato un grave calo di peso fra “Frank” e “Back to black“, dichiarando un disturbo alimentare, a due anni dall’uscita del suo secondo album inizia la caduta libera. Ci sono date saltate, riabilitazioni, arresti per possesso di droga, minacce, lotte in strada con fidanzati ed ex, cauzioni e accuse. C’è l’amore precipitato col marito Blake Fielder-Civil, la delusione, l’adozione di una bambina mai avvenuta e poi la fine, datata 27 luglio 2011.
Amy muore, secondo diversi accertamenti e autopsie durate anni, per effetto di uno shock dovuto all’abuso di alcol dopo un periodo di astensione dallo stesso. Ma le ferite che la portano alla morte non sono certo di quella sera. In Amy vive per anni un malessere. Lei stessa lo definisce derivare dal divorzio dei suoi genitori e dal conseguente rapporto col padre. Ma certo – parafrasando Tony Bennet – Amy cade sotto un peso divenuto insostenibile: due gambe troppo magre e un cuore malconcio non hanno tenuto al peso di milioni di occhi puntati addosso.
Pensiamo “solo” alla sua musica
Dieci anni sono pochi, ma alla fine non pochissimi. Abbastanza per portare a coscienza due temi. Il primo: di abusi, si muore. La droga, l’alcol, i disturbi alimentari non vanno sottovalutati in nessun caso, non va fatta stupida ironia su chi finisce per definirsi attraverso cattive abitudini, vanno tenute alte le antenne sui giovani e sui vicini laddove un abuso finisce per essere una richiesta di aiuto. Accogliamo questa lezione. Due: “club dei 27” o meno, seppur con tutto questo contorno di dolore e difficoltà, oggi siamo tenuti a celebrare la vita di Amy più che la morte. Perché, alla fine, se anche questi 27 anni sono stati vissuti in parte sotto i riflettori, la morte resta un fatto privato, la vita pure. Agli altri, a noi, resta il dono di Amy al mondo, per sempre: la sua musica.