Gymkhana-Cross di Luigi Davì, 40 ‘foto’ della classe operaia Anni ’50

Ci sono casi in cui esiste un patto rafforzato fra scrittore e scritto, quando entrambi viaggiano nello stesso mondo oggettivamente inteso. “Gymkhana-Cross” di Luigi Davì (Hacca Edizioni) è un racconto autobiografico, una lettura semplice e piacevole in superficie che sottende un mondo profondo e complesso. Oltre 40 racconti in cui convivono due anime. Da una parte, l’esperienza autoriale di un giovane 28enne deciso a scrivere per testimoniare la vita in fabbrica. Dall’altra la vita stessa di quel giovane operaio che guarda al futuro dall’interno del mondo del lavoro.

Il debutto nei “Gettoni” di Elio Vittorini del 1957

Debuttato nel 1957 nei “Gettoni” di Elio Vittorini, Gymkhana-Cross racconta la periferia torinese dopo il conflitto mondiale e prima degli anni di piombo. Un ventennio caratterizzato, anche culturalmente, da una diffusa sensazione di limbo. Qui si incunea il “piccolo paradiso operaio” raccontato da Davì. Un universo, “rappresentazione allegra della classe operaia“, fatto di giornate lunghe e tranquille, vissute in fabbrica fra lavoro e burle, serate spensierate a caccia di amore e poco altro.

La narrazione è fatta di storie minime, quasi minimaliste. Sergio Pent, in prefazione, infatti, collega il lavoro di Davì alla scrittura per fotografie del successivo Raymond Carver. “È una società limpida e schietta nella sua indole provinciale, racchiusa in una carrellata di istintività dialettali circoscritte – spiega Pent – , dove ancora non compaiono (è una questione di pochi anni) le connotazioni linguistiche oscure dei migranti del Sud, che di lì a poco avrebbero ‘invaso’ il cortile di casa Davì e potenziato la crescita industriale di Torino, formando le basi per un’Italia diversa, nuova e allargata all’idea di società in via di generoso sviluppo“.

Una storia semplice, al di sopra delle criticità della classe operaia

La fabbrica dell’autore piemontese è lontana anni luce da quella concezione di focolaio della rivoluzione culturale italiana fra Sessanta e Settanta. E questo non per un’omissione, ma per quella volontà documentaristica, di raccontare quel preciso momento e quel preciso luogo senza particolari fini se non la testimonianza. Una concezione di scrittura, istintiva e naturale, che rappresenterà il dna dello stile di Davì. L’autore stesso, infatti, inviando una sua idea di racconto a Calvino nel ’54 spiega: “come vedi è una storia estremamente semplice, di una semplicità che ha però il pregio di essere voluta“. La semplicità voluta, come la gergalità scelta, che caratterizzano lo scorrere della narrazione, sono la firma dell’autore.

Una lettura utile, infine: 300 pagine in cui si incontrano un operaio che vuole raccontare e, al contempo, uno scrittore che ha saputo lavorare dentro il suo tempo e, così, narrarlo da dentro.

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