Nucleare tascabile: la nuova via della Sostenibilità?

Nel 1975, in Danimarca, un gruppo di attivisti contrari all’ energia nucleare adotta, per la prima volta, il simbolo del sole che ride con una scritta che non lasciava adito a compromessi: “energia nucleare? No grazie”.

L’equazione è chiara: il rifiuto netto del nucleare è la condizione necessaria per potersi dire attento alla sostenibilità.

In effetti, la comparsa del sole che ride precede di qualche anno il primo grande incidente nucleare: quello della centrale sull’isola di Three Mile Island negli Stati Uniti. Seguiranno i più noti Chernobyl (1986) e Fukushima (2011).

Una centrale nucleare costa molto nella fase di costruzione, può essere particolarmente economica nella fase di produzione dell’energia ma torna particolarmente dispendiosa nella fase di dismissione.

Dopo lunghi anni di produzione, lo smantellamento del reattore comporta il trattamento di materiali fortemente radioattivi, principalmente il “carburante”: grosse quantità di uranio o plutonio che restano contaminati per tempi assai lunghi e che devono essere conservate in sicurezza.

Per “tempi assai lunghi”, si intende centinaia di secoli: il plutonio dimezza la sua radioattività in 24.000 anni, generando costi prospettici ed oneri sulle generazioni future talmente alti da essere difficili da stimare.

Tuttavia, siamo vicini ad un importante salto di tecnologia: presto le centrali nucleari saranno molto più contenute nelle dimensioni e saranno costruite in serie.

Queste piccole centrali, della dimensione di un motore di aereo, possono produrre un flusso costante di energia tale da poter alimentare qualche migliaio di utenze domestiche, usando come combustibile l’equivalente in volume di un vasetto di yogurt di materiale radioattivo ogni cinque-dieci anni.

La soluzione ha delle caratteristiche interessanti: non emette gas climalteranti (come tutte le centrali nucleari), non ha la discontinuità di produzione tipica degli impianti eolici e solari e, quindi, non necessita di batterie per l’immagazzinamento dell’energia che, soprattutto, non deve essere trasportata, rendendo forse obsoleti i massicci investimenti per l’ampliamento e la manutenzione della rete di trasporto e distribuzione. Inoltre, il rischio di contaminazione da radiazioni sarebbe molto contenuto a causa della ridotta dimensione degli impianti.

Resta ancora irrisolto il problema della conservazione delle scorie sia dal punto di vista degli enormi tempi di decadimento del materiale radioattivo sia dal punto di vista della sicurezza: il plutonio era il componente principale della bomba di Nagasaki. Qualsiasi forma di stoccaggio, anche fortemente decentralizzata e di piccole dimensioni non può esimersi da standard di sicurezza molto elevati. Ci vogliono pochi barattoli di yogurt al plutonio per costruire un ordigno nucleare.

Nel nostro paese, il dibattito sul nucleare si è riacceso di recente. Il Governo sembra orientato a rivedere il “no grazie” di molti anni fa e a riproporre all’opinione pubblica l’opzione atomica, già respinta con i referendum del 1987 e del 2011; lo fa sulla base degli sviluppi tecnologici che sono stati illustrati, ritenendo, probabilmente a ragione, che le soluzioni oggi disponibili sono ben diverse da quelle degli anni passati.

Restano, comunque, dei punti fermi molto importanti, se da un lato il nucleare evidentemente azzera le emissioni di gas climalteranti, dall’altro pone sulle generazioni future l’onere di conservare in sicurezza del materiale altamente tossico e potenzialmente utilizzabile per scopi bellici. L’onere di questa attività che si protrae per tempi sostanzialmente infiniti, genera costi di difficile quantificazione ma, senza dubbio, tali da rendere qualsiasi calcolo finanziario assolutamente ipotetico.

Il rebus nucleare non si è risolto anche se ha fatto qualche passo in avanti.

di Michele Russo

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