Se avete posto attenzione alle immagini e alle notizie che i media ci trasmettono sulle zone di conflitto vi sarete accorti che ogni recente teatro di guerra ha prediletto sempre di più i centri urbani.
Il perchè è scontato: sono il cuore pulsante dell’economia dei territori, sono spesso importanti nodi di comunicazione e colpirli significa colpire il cuore della popolazione che vi risiede. Lo scenario, ad esempio, a cui stiamo assistendo nella guerra di Putin contro l’Ucraina, è il tentativo di accerchiare, isolare e affamare le città e che, poi, non è altro che la strategia utilizzata dai combattenti dall’assedio e dalla caduta di Troia a quello di Leningrado nella Seconda Guerra mondiale: in pratica gli eserciti cingevano d’assedio una città per logorarla lentamente sino a costringerla alla resa.
Cambiano gli strumenti per fare la guerra ma la strategia a quanto pare non cambia di molto: un elemento sempre più caratterizzante i recenti conflitti è, infatti, il coinvolgimento nella guerra dei centri urbani. Dallo studio dell’International Institute for Strategic Studies emerge che i rifugiati tendono sempre più a gravitare attorno alle città, rinunciando ai campi profughi costruiti nelle aree di campagna.
Secondo quanto riferisce l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati , circa il 90% di questi, predilige sistemarsi nei centri urbani o nella prima periferia delle nazioni confinanti, con il conseguente effetto che le guerre tendono a insanguinare sempre più le città. Questo dato emerge in particolare nel conflitto siriano, come nella lotta fra Ankara e ribelli curdi in Turchia e in questi giorni anche in quello tra Russia e Ucraina.
In Afghanistan, ad esempio, ha preso sempre più piede la strategia dei talebani di colpire i centri urbani attraverso attacchi suicida o operazioni di guerra mirate. “La natura dei conflitti sta cambiando – afferma John Chipman, Direttore Generale IISS – E come gli sfollati si stanno dirigendo sempre più verso i centri urbani, lo stesso fenomeno si registra per i combattimenti”. Se in passato i combattenti sfruttavano montagne o foreste, vedi ad esempio come nella guerra in Vietnam, oggi il teatro delle battaglie è sempre più la città e questo aggrava anche il compito degli operatori umanitari e dei soccorritori.
La guerra moderna, quindi, che si combatte perlopiù nelle città, addossa sempre più il peso della morte sui civili. È un dramma riemerso in tutta la sua dirompenza anche in Ucraina. Le forze armate sono di fronte a un dilemma, comune a tutti gli eserciti occidentali che dispongono di armi sofisticatissime sia di osservazione che di targeting.
Gli eserciti moderni usano solo bombe ultra-precise; prima di colpire adottano misure di salvaguardia, invitando in vari modi la popolazione a mettersi in salvo. Ad esempio, inviano ai civili messaggi telefonici, effettuano chiamate automatiche di avvertimento o più semplicemente lanciano volantini dal cielo. Ma non sempre è possibile avvertire, pena il fallimento di un’operazione e da qui l’esito tragico dei bombardamenti di obiettivi civili nei centri urbani, operati dai militari sia da terra che dal cielo che dal mare.
Ad aggravare il teatro delle operazioni di guerra c’è, ad esempio, la recente tendenza strategica delle parti in campo di mimetizzare nei centri urbani, le postazioni militari antiaeree, sistemandole all’interno di infrastrutture civili. Questa tattica fa sì che si confonda l’intercettazione dei bersagli da parte delle truppe avversarie che, spesso, colpiscono obiettivi che solo presuntivamente sono militari e causando inevitabilmente la morte o il ferimento di numerosi civili. Un dato deve farci riflettere: i morti tra la popolazione civile sono tra 50 e 300 volte superiori a quelli tra i militari.
È questa la guerra dei nostri giorni, che ha stravolto uno storico principio che sanciva che fosse il soldato a dover morire in battaglia e a sacrificarsi per la patria, affinché la popolazione civile ne fosse coinvolta nel minor modo possibile.