Marco De Ponte, Segretario Generale di ActionAid Italia riflette sull’opportunità o meno per un atleta di prendere parte ad una competizione che si svolge in un paese che figura nella black list mondiale degli Stati che si rendono responsabili di gravi violazioni dei diritti civili.
Di seguito il suo intervento che siamo stati autorizzati a pubblicare in forma integrale.
“Mentre fai l’atleta sei talmente impegnato sulla tua competizione che magari non ti curi di mettere a fuoco il contesto in cui si svolgono i grandi eventi sportivi. Non lo dico per per giustificare i calciatori che ora sono ovviamente concentrati sul torneo, ma per spiegare che la mia esperienza personale è che chi si trova dentro un meccanismo così avviato raramente ha la maturità per ragionare oltre la competizione: non è un bene ma è normale. Questo invece non esime chi lo sport lo organizza e chi fa affari attorno allo sport dal cercare di farlo bene, come dovrebbe accadere per qualunque business virtuoso.
Questi mondiali più che in passato mettono sotto i riflettori e dunque in discussione i comportamenti di uno Stato e di una industria tutt’altro che specchiati. Sono quindi – va detto – anche una opportunità perché ben pochi si sarebbero occupati del Qatar e dei diritti umani se le luci non si fossero accese su un palcoscenico globale: è un bene che se ne stia parlando quindi.
La pressione mediatica è utile per riflettere non solo sugli abusi diretti verso individui apparentemente sfruttati prima e durante la kermesse, ma in senso più ampio per ragionare su una questione più ampia e cruciale che la contemporaneità offre alla riflessione politica in ogni paese, cioè il rapporto tra Capitale e Lavoro.
Quanto – si chiede De Ponte – nel XXI secolo i lavoratori riescono a negoziare in fatto di sicurezza e salari con gli interessi di un Capitale che si muove senza frontiere e cresce in maniera spropositata nelle mani di pochi privati, di fatto diventando capace di piegare anche la mano pubblica, gli Stati?
E’ una questione che ci tocca tutti da vicino, tutti i giorni, non solo i lavoratori sfruttati e purtroppo morti per costruire gli stadi di un paese lontano, ma anche chi legge e chi ospita queste poche righe, nel proprio paese o nella propria città, con il proprio datore di lavoro.
Il potere negoziale dei lavoratori appare sempre più eroso dagli interessi del capitale e per questa ragione milioni e milioni di lavoratori sono sottratti o mai arrivano a negoziare nel quadro di contrattazioni collettive. Il lavoro “informale” che poi di fatto sfugge alla mobilitazione delle risorse pubbliche da parte dello Stato, interessa milioni e milioni di persone in tanti paesi dove ActionAid è impegnata, ad esempio in paesi enormi come l’India, il Kenya, il Brasile, ma anche in Italia, come ben sappiamo.
Il Mondiale in Qatar è un esempio eclatante di questo sbilanciamento di potere sempre più ampio. Guardare al caso Quatar dunque può aiutare a capire cosa accade nel resto del mondo, anche nelle nostre città e nelle nostre campagne.
In fondo quando c’è di mezzo lo sport tutti ci ricordiamo e ci auguriamo di poter fare riferimento anche a dei valori e dunque è possibile che proprio da chi produce, anima ed ammira lo sport, maturino sensibilità, suggerimenti ed anche una protesta più vigorosa. Chi lavora nell’industria dello sport, infatti, ha bisogno di guadagnare legittimità innanzitutto presso gli sportivi (anche quelli “della domenica”) e tra queste persone – lo dicono anche indagini demoscopiche – esiste comunque una tensione etica all’onestà ed al rispetto dell’Altro. Ciò ha permesso di fare pressione per anni per esempio sui produttori di materiali per la pratica sportiva, ad esempio chi fabbrica palloni da calcio ha cercato sempre più di evitare lo sfruttamento del lavoro minorile.
I “consumatori di sport” possono fare molto per far sentire la propria voce. Actionaid, partendo da questo assunto, in Italia, continua a lavorare assieme al CONI per avanzare in un modo migliore nella tutela, per esempio, dei giovani italiani senza cittadinanza, così come in passato ha affrontato altre istanze quali quelle dei ragazzi che vivono nelle favelas di Rio, dove si sono tenute le Olimpiadi 6 anni fa, o ancora prima i ragazzi costretti in strutture scolastiche temporanee dopo gli eventi sismici del 2009 e del 2016.
Solo in Italia – continua De Ponte – sono alcuni milioni le persone che praticano sport e che contemporaneamente si mostrano sensibili ai temi della solidarietà e della giustizia sociale, un’alleanza tutta da costruire e rafforzare su cui puntare. Non dimentichiamoci che in Italia ci apprestiamo a organizzare delle Olimpiadi invernali e che si può lavorare in modo tale che siano diverse dai mondiali in Quatar, che garantiscano partecipazione vera delle comunità nei processi decisionali e che riflettano magari proposte come quelle dei Consigli del Lavoro e della Cittadinanza che Actionaid ha avanzato in seno al Forum Diseguaglianze e Diversità, per migliorare il governo d’impresa.”