Violenza sulle donne, il valore della prevenzione con PRIMA

Oggi, 25 novembre, l’attenzione sul tema della violenza è altissima. Moltissimi i contributi che ci offrono lo spaccato del nostro Paese con dati e attività di sensibilizzazione. È vero anche che la violenza è una piaga sociale che ha implicato e implica azioni, che vanno ben oltre le attività di oggi. La violenza è anche una narrazione che appartiene alla società e come tale va vissuta come un emergenza da contenere.

Ne abbiamo parlato con la Psicoterapeuta Anna Valeria Lisi del Centro PRIMA, Prevenzione intervento maltrattamenti, di Roma.

Cos’è il Centro Prima e da quale approccio parte? 

“Il Centro PRIMA nasce come CAM Roma nel 2015 e da allora ha accolto circa 400 persone. Siamo passati da CAM a PRIMA per mettere un accento sul concetto di prevenzione. Questo perché domandarsi come funziona la violenza ci consente di intervenire prima che questa si manifesti in maniera esplosiva e che non ci sia più possibilità di recupero.

La violenza, infatti, funziona per escalation. Ci sono degli atteggiamenti relazionali molto comuni, come il provocarsi, il pretendere, il lamentarsi, il preoccuparsi, il controllare, la diffidenza, che sono per certi versi espressioni della cultura patriarcale. Nel senso cioè che esprimono un modo di stare in relazione fondato su potere, possesso e controllo dell’altro.

Se noi riusciamo a valorizzare questi comportamenti capiamo che sono segnali che poi retrospettivamente preannunciano la violenza. Tutti questi atteggiamenti sono senza prodotto: esclusivamente finalizzati a mettere l’altro in una posizione che io stabilisco a priori. Non si riconosce l’estraneità dell’altro come un valore”. 

Da quale nuova istanza nasce il vostro approccio?

“La nostra specificità è quella di avere bene in mente che la violenza è un fenomeno che riguarda l’uomo maltrattante, ma anche la relazione che quell’uomo ha con quella donna. Si persegue la riabilitazione, ma a partire da un altro modo di concepire il problema. Pensiamo che la violenza sia sempre il risultato di vissuti che non si riescano a comprendere e a decifrare prima ancora di tollerare. E che questi vengono espulsi o si tenta di espellerli con dei comportamenti.

L’idea di fondo da cui si parte è che noi possiamo esprimere le emozioni in due modi alternativi. Da una parte pensandole, utilissimo modo per dare senso alla nostra realtà, quindi alle possibilità che abbiamo nel mondo e alle nostre aspettative. In alternativa, le possiamo espellere – solo apparentemente, non è possibile disfarsene veramente. La violenza riguarda questo secondo modo.

Il lavoro che svolgiamo in PRIMA consiste nel dare uno spazio di ascolto e di contenimento alle persone per mettere al centro del discorso le loro emozioni e quindi progressivamente riuscire a spostare il tema dall’altro a sé. 

Avete riscontrato un denominatore comune nelle 400 persone accolte? Se sì, quale?

“Una prima ricorrenza è quella di sentirsi ‘uno scarto’ nei confronti della propria compagna, ma più in generale nella vita, nei vari contesti abitati. Questo vissuto dipende da storie di vita nelle quali non c’è stata una valorizzazione personale, piuttosto il contrario. Da storie di violenze a storie di assenza delle figure di riferimento, persone a cui è stata tolta una possibilità, persone costantemente svalutate: situazioni di disagio. 

Altra caratteristica che gli uomini portano quasi sempre è quella del vissuto vittimistico. Questi uomini che agiscono violenza non si sentono tanto responsabili per quello che gli accade perché vivono la violenza come una risposta alle aggressioni che arrivano dalla compagna. C’è uno spostamento della responsabilità da sé all’altro.

In questo, il passaggio da oggetto d’amore a nemico o oggetto di violenza è molto particolare. Mentre in tutte le altre specie il pericolo deriva dalla presenza del nemico, dai predatori, per gli uomini invece il pericolo si configura come assenza della persona che porta le cure. Nel momento in cui non si sentono valorizzati questi uomini vivono questa assenza come una cattiva presenza ovvero come una presenza persecutoria. In questo senso, possono addirittura arrivare a sentirsi legittimati a colpire. 

Il terzo fattore che riscontriamo in tutte le storie è che la violenza procede per escalation, come detto prima. Si tratta cioè di atteggiamenti relazionali che denotano una logica di controllo e di possesso, piuttosto che di scambio con un estraneo: provocarsi, diffidare, pretendere, obbligare. Tutti segnali che annunciano la possibilità che la violenza possa degenerare. Creare uno spazio di ascolto e accoglimento e mettere al centro un discorso sulle emozioni e poi sui comportamenti agiti come tentativi di espellere queste emozioni difficili diventa dirimente”. 

Quali sono le azioni da mettere in campo dal vostro punto di vista?

“Le azioni da mettere in campo sono culturali prevalentemente. La strategia delle panchine rosse, fondata su giudizio e colpa verso chi agisce violenza, non è purtroppo efficace a pescare quella fetta di persone che pensa che il problema non la riguardi e che quindi non si lascia coinvolgere.

La strategia utile, a nostro parere, è anche quella che valorizzi il fatto che anche gli uomini che agiscono violenza sono persone che hanno desideri di vivere relazioni più piene e soddisfacenti. Solo stimolando questo desiderio, quella domanda di cambiamento, è possibile fare presa. In questo senso quello che facciamo come centro è reperire risorse dove ce n’è scarsità.

Gli uomini arrivano da noi con lamentele, con vittimismo, con poca coscienza di quello che sta accadendo nella loro vita e una grande paura di perdere qualcosa. Il lavoro consiste nell’accogliere e contenere questo disorientamento e poi progressivamente nello spostare il focus su di sé: emozioni, vissuto e reazioni prodotte da ciò che loro sentono. Serve un approccio meno punitivo e più in grado di cogliere gli elementi di sviluppo di una domanda di cambiamento che anche queste persone hanno“.

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