Oggi, oltre 100 milioni di cittadini degli Stati Uniti d’America saranno chiamati ad eleggere nelle modalità previste dall’ordinamento legislativo statunitense, il nuovo Presidente. L’Election day comincerà negli USA quando in Italia sarà più o meno mezzanotte, ovvero quando verranno chiusi i seggi nei primi Stati.
Gli occhi di tutto il mondo saranno puntati su questo evento, che giunge in un momento complesso e ad alto rischio per l’economia e il mantenimento degli equilibri politici militari tra le varie potenze mondiali dalle quali dipendono le sorti degli abitanti dell’intero pianeta e tanto più del Vecchio Continente e della nostra amatissima Italia.
Si fa sempre più strada tra gli esperti e gli analisti che, a prescindere da chi prevarrà nel voto degli americani tra la democratica progressista Kamala Harris e il conservatore estremista Donald Trump, per l’Italia e per l’Europa, cambierà ben poco, perché entrambi i candidati sebbene abbiano visioni diverse, hanno recentemente mostrato di avere comunque un sottile filo che li accomuna: in primis la necessità di porre maggiore attenzione agli affari di casa propria nell’esercizio del mandato che i cittadini americani affideranno nelle loro mani.
Di conseguenza, a meno di possibili smentite, per l’Italia e per la stessa Europa, alla resa dei conti, non cambiera’ quasi nulla nell’attuale politica degli Stati Uniti, sia che dovesse vincere il repubblicano Donald Trump che la progressista Kamala Harris. Entrambi, da tempo, hanno, infatti, palesemente mostrato un crescente disinteresse per le vicende di politica economica e strategico militare che coinvolgono gli Stati dell’Unione Europea e Trump ha detto più volte di voler liquidare la stessa Alleanza atlantica.
Entrambi i candidati negli ultimi tempi hanno mostrato al mondo intero che è in atto l’inequivocabile volontà di disimpegno, da parte della nuova Amministrazione a stelle e strisce, da quello che è storicamente stato il ruolo strategico militare e di sostegno economico che gli USA hanno riservato ai Paesi europei. Oggi, l’Amministrazione americana è sempre più impegnata nel risolvere le complesse questioni interne alla Federazione.
Sembrerebbe, invece, ancora viva per gli USA una particolare attenzione per quanto accade in alcune aree dei Paesi asiatici, sia da un punto di vista geopolitico che economico, soprattutto nella Repubblica Popolare cinese, ma anche tra le due Coree e nella piccola, ma ricca e contesa, penisola di Taiwan.
L’industria americana è in parte legata e in parte dipendente da quella asiatica e di conseguenza è inevitabile che eventuali drastici cambiamenti degli attuali equilibri politici e militari in quell’area del mondo, potrebbero avere, come di fatto già hanno registrato, effetti fortemente negativi su taluni settori del comparto economico produttivo degli Stati Uniti d’America.
Per i democratici, la storia dal ‘900 a oggi, li vede protesi a difendere il ruolo, vero o immaginato, degli Stati Uniti come paladini e difensori della democrazia a livello globale. Per questo motivo sono stati portati a sostenere o partecipare a quei conflitti nei quali individuano uno o più dei contendenti come amici della democrazia.
I repubblicani sono seguaci del cosiddetto Grand old party, che è protagonista di una visione isolazionista del loro Paese, con l’intento di tenere fuori dalle Americhe le ingerenze delle maggiori potenze europee.
Comunque vada a finire l’esito del voto, l’impressione è che entrambe i candidati alla presidenza mostrino, rispetto al passato, meno interesse per quanto sta accadendo o potrebbe accadere in Europa, in merito sia alla grave crisi economica che a quella energetica, come anche nei confronti dei conflitti in corso in Ucraina e in Medioriente.
La visione di Kamala Harris è più in continuità con la politica di Biden, per il quale è stata la Vicepresidente per quattro anni, condividendone e sostenendone, almeno ufficialmente, tutte le scelte e in verità non sempre azzeccate, fatto questo che potrebbe danneggiarla nel giudizio degli elettori.
Il percorso intrapreso da Trump è stato esattamente il contrario: personalità ribelle e incline ad estremizzare ogni decisione, il tycoon non ha mai accettato la sconfitta inflittagli da Biden nelle ultime elezioni, tanto da essere stato il principale promotore dell’assalto a Capitol Hill e da allora il più agguerrito oppositore dell’attuale, ma ancora per poche ore, Presidente americano.
Harris come Biden ha scelto di aiutare, prioritariamente e legittimamente, le aziende statunitensi in difficoltà a danno di quelle europee e in questo caso esiste un atteggiamento iperprotettivo del comparto economico produttivo degli Stati Uniti da parte dei due contendenti, tanto che Trump ha annunciato che, nel caso venisse eletto, imporrà’ nuovi dazi tra i 10 e il 20% sulle importazioni dall’Europa.
Per quanto riguarda i conflitti in corso in Europa e nel vicino Medioriente, Harris probabilmente continuerà con gli aiuti a Kiev, ma con un occhio attento ad un sempre maggiore disimpegno degli Stati Uniti dal sostegno militare sino ad oggi offerto agli altri Paesi europei.
Trump, viceversa, ha dichiarato che sospenderà sicuramente gli aiuti all’Ucraina e ha affermato di avere nelle maniche l’asso per una soluzione di pace con la Russia, della quale però non si conoscono i termini, ma che potrebbe essere sostenuta da una vecchia amicizia del Tycoon con Putin che, a dire dell’ex Presidente americano, farà valere sul tavolo della concertazione internazionale.
Anche per quanto riguarda il Medioriente la posizione degli Stati Uniti sostanzialmente non cambiera’ e sembrerebbe di capire che le varie missioni diplomatiche del Segretario di Stato Antony Blinken siano state un espediente interlocutorio per concedere più tempo a Netanyahu di organizzare meglio la sua difesa e il suo attacco finale contro Hamas, con il contestuale invio di aiuti economici e militari ad Israele e dichiarando sempre la natura terroristica della resistenza palestinese. Non è passata del resto inosservata la fredda e distaccata posizione assunta dagli Stati Uniti in occasione dell’attacco dell’esercito israeliano ai contingenti Unifil in Libano.
Sia Harris che Trump hanno sempre sottolineato il diritto di Israele a difendersi in quanto Stato aggredito, forse sospinti anche dalla speranza di liberare gli Stati Uniti dal timore di una ripresa degli attacchi terroristici su scala mondiale e che potrebbero essere messi in campo dalle correnti più estremiste integraliste dell’Islam anche contro gli Stati Uniti d’America.
Tutto ciò ignorando, però, quelle che sono le vere ragioni della resistenza palestinese che dura da oltre settant’anni e che gli storici affermano che abbia radici profonde nella storia millenaria del Medioriente, aldilà dell’episodio ovviamente del 7 ottobre 2023, che è stato inequivocabilmente giudicato da tutta la comunità internazionale un vero e proprio atto terroristico con l’aggravante di essere stato commesso ai danni della popolazione civile.
Si ha sempre di più la certezza che nella Striscia di Gaza si stia assistendo ad un vero e proprio genocidio che, se fosse accaduto probabilmente in un altro Paese, avrebbe scatenato l’ira funesta della comunità internazionale, cosa che, invece, non è accaduta in questo drammatico evento. In Medioriente si sta di fatto assistendo a una vera e propria pulizia etnica messa in campo da Israele che, come è evidente, non si è limitato solo alla reazione per la difesa di un principio del diritto internazionale che autorizza uno Stato aggredito a difendersi.
La questione è storicamente difficile e complessa e comunque anche in questo caso, la posizione dei due candidati americani è affine quanto meno nell’incondizionato sostegno offerto dagli USA a Nethanyahu.
Del resto, gli attuali interessi degli Stati Uniti, in questo momento storico, sono rivolti più ai paesi asiatici con i quali, per problemi legati anche ai rapporti di mercato, intendono intensificare le relazioni diplomatiche e militari, a discapito degli alleati europei.
Quindi sempre di più l’Europa è destinata a doversela cavare da sola, a dover cercare le risorse economiche e strategico militari all’interno dei Paesi che fanno parte dell’Unione, e tutto questo avviene in un momento in cui il ruolo di sostegno degli USA sarebbe viceversa molto utile per alcuni Stati europei, Italia compresa.
Ma il vecchio sogno americano, animato dalla fiducia dell’Europa sul ruolo degli Stati Uniti come poliziotti del mondo e fedeli risolutori delle difficoltà economiche e militari del nostro Continente, oggi sembrerebbe destinato ad essere solo un lontano ricordo e sarebbe auspicabile che questo atteggiamento degli amici americani servisse da stimolo all’Unione Europea per acquisire una maggiore consapevolezza della necessità di acquisire una propria identità e una maggiore autonomia.