In 59 edizione della Biennale di Venezia il padiglione Italia non ha mai avuto un unico artista. E questa edizione ti fa capire perché. E non perché non ci siano in Italia artisti che possano farlo.
Affidare un padiglione ad un solo artista è rischioso; è eroico, ma sempre pericoloso. Come dice il detto, a furia di giocare col fuoco si rischia di bruciarsi. E GianMaria Tosatti si è bruciato alla grande.
La sua opera che è tutto ma non è sicuramente arte. Una scenografia, ben fatta, ma che non ha nulla a che vedere con l’arte contemporanea. Uno scenario da film italiano candidato agli Oscar. Una sola domanda: perché? Un insieme di immagini che nell’arte abbiamo già visto e soprattutto visto in modo sicuramente più poetico e toccante.
Un’Italia che non viene rappresentata; un’Italia che viene descritta come scheletro di se stessa, vuota, inerme e senza futuro. L’Italia non è questo. Una fabbrica abbandonata o semi, che prende vita solo grazie a una radio accesa che trasmette un comizio. Un classico appartamento degli anni 60 vuoto, senza vita sociale senza anima. Le macchine da cucire e l’odore del cloro. Un insieme di contrasti che infastidiscono più che attrarre l’attenzione. Le lucciole non vivono dove c’è il cloro. Muoiono.
Quello che manca in questo lavoro è la poesia, che da ad un opera il senso. Quello “schiaffo” necessario a riempire il cuore e l’anima di emozioni. Una pecca: il cartello con la scritta “SILENZIO” con il punto esclamativo poteva essere evitato.
Complimenti a GianMaria Tosatti per la sua scenografia. Scenografia come quando la vedi per prima cosa a teatro, ma ti manca la parte performativa.
L’arte è tutta un’altra cosa. E la Biennale di Venezia dovrebbe ricordarlo a tutti