Roma, 16 feb. (Adnkronos Salute) – “In Italia i tumori del fegato sono circa 12mila l’anno in questa fase storica, il che vuol dire un’incidenza relativamente bassa. Però se prendiamo in considerazione i pazienti affetti da una malattia cronica di fegato avanzata, cioè con una cirrosi, allora l’incidenza arriva anche al 2-3% per anno, il che vuol dire che se un medico segue 100 cirrotici deve aspettarsi che ogni anno tre di questi svilupperanno il cancro ed è una quota elevata”. Così Fabio Farinati, direttore di Gastroenterologia dell’Aou di Padova e direttore del Dipartimento di Scienze chirurgiche, oncologiche e gastroenterologiche, in occasione del convegno ‘Strategie di screening e prevenzione dei tumori digestivi: il Progetto europeo’, promosso a Roma dalla Fondazione per le malattie digestive (Fmd) per illustrare le raccomandazioni europee e le azioni utili da mettere in campo in Italia affinché sia promosso uno stile di vita più sano e siano incentivati programmi di prevenzione.
“I fattori di rischio storici sono quelli da virus epatite B – spiega all’Adnkronos Salute – che è costante nel tempo nonostante la vaccinazione; l’infezione da epatite C, che sta invece calando drasticamente a seguito delle cure con i farmaci che debellano l’infezione; l’alcol, che in questa fase è responsabile di un 20-30% dei tumori del fegato e che vede un eccesso di consumi nella popolazione giovanile” che potrebbe essere “pericoloso in futuro”. Infine “c’è il grosso problema della sindrome metabolica, cioè tutte quelle alterazioni del metabolismo come obesità, diabete, ipertensione e sovrappeso, che causano un accumulo di grasso nel fegato con una infiammazione dello stesso che può portare allo sviluppo del cancro”.
Secondo l’esperto, bisognerebbe andare a “stanare tutti i soggetti che ancora non sanno di essere affetti e qui c’è uno screening anche dell’infezione da portare avanti. Poi bisognerebbe fare delle campagne educazionali per i giovani, sia per quanto riguarda il consumo alcolico che per quanto riguarda un adeguato stile di vita, quindi un’alimentazione mediterranea e un’attività fisica adeguata che eviti la sindrome metabolica. E poi la sorveglianza dei soggetti affetti da patologia epatica cronica”.
Un capitolo riguarda la necessità di avere dei biomarcatori adeguati. “Purtroppo – precisa Farinati – allo stato attuale né dalla medicina standard né dalla biologia molecolare siamo venuti in possesso di un marcatore a elevata sensibilità e specificità. Si utilizza tradizionalmente l’alfa-fetoproteina, ma questa non diagnostica circa un 50% dei pazienti affetti, quindi ha dei falsi negativi molto importanti. L’associazione alfa-fetoproteina ed ecografia è quello che molti fanno e che aumenta la nostra penetranza diagnostica, ma non è certamente ancora ottimale”.