Siamo giunti ad un nuovo 8 marzo. Una nuova “Festa della Donna” conosciuta dai pochi con il nome di Giornata internazionale dei diritti della donna. La storia narra che la giornata nasca l’8 marzo del 1908 per le operaie dell’industria tessile Cotton di New York che rimasero vittime dell’incendio divampato all’interno dell’azienda; azienda dove erano state segregate dai proprietari in risposta allo sciopero indetto dalle lavoratrici che chiedevano condizioni di lavoro migliori e salari più alti. Una storia vera solo in parte. A New York l’incendio scoppiò davvero ma non nel 1908 bensì nel marzo del 1911 e la fabbrica era la Triangle, vittima di una delle più gravi disgrazie industriali del XX secolo che causò la morte di 146 persone in maggioranza donne.
L’8 marzo in realtà è la data in cui nel 1917 le donne russe marciarono su San Pietroburgo alla guida di una grande manifestazione per chiedere la fine della guerra. Fu il punto di partenza per una serie di successive dimostrazioni popolari che decreteranno l’epilogo dell’impero Romanov e aprirono la strada al riconoscimento dell’8 marzo come data simbolo della Giornata Internazionale dell’operaia proclamata dalla Seconda Conferenza internazionale delle donne comuniste svoltasi a Mosca nel giugno del 1921.
La prima marcia arrivò esattamente 10 anni dopo quando a Stoccarda si svolse il VII Congresso della II Internazionale socialista in cui, oltre ai temi legati al colonialismo e alla possibilità di una guerra europea, si discusse della questione femminile e del suffragio universale. Un anno dopo, nel febbraio del 1908, la socialista Corinne Brown coordinò la Conferenza del Partito Socialista a Chicago, aperta a tutte le donne, in cui i temi principali furono lo sfruttamento del lavoro femminile, le discriminazioni sessuali e il diritto di voto.
Quell’assemblea passò alla storia con il nome di Woman’s Day e, seppure non riscosse un immediato successo, spinse il Partito Socialista americano a dedicare l’ultima domenica di febbraio del 1909 all’organizzazione di una manifestazione in favore del diritto di voto per le donne.
Ed oggi, a 101 anni da quella prima marcia, siamo qui a parlare delle donne, e soprattutte delle donne che in questi anni sono in guerra. Una guerra materiale con bombe, morti e dispersi, ed una guerra psicologica che le distrugge da dentro.
Le prime donne che in questo momento ci vengono in mente sono quelle ucraine e quelle russe. Proprio dove 101 anni fa partì la marcia, oggi quelle donne stanno piangendo mariti, figli padri, sorelle e fratelli. Una guerra che sta lasciando solo ed esclusivamente dolore e distruzione. E che come tutte le guerre, volute, desiderate e scatenate da uomini. Questo 8 marzo non può non imporci il dovere della mobilitazione al fianco e a sostegno delle donne ucraine vittime dei più disparati crimini di guerra. Proprio nei giorni scorsi il Ministro degli esteri ucraini Dmytro Kuleba ha denunciato che donne e ragazze sono già, purtroppo, prede di stupri e sevizie.
Violenze sessuali commesse dai militari di Vladimir Putin come già accaduto nel Donbass durante le operazioni che hanno accompagnato l’invasione russa della Crimea nel 2014 e su cui la Corte penale internazionale ha aperto un’inchiesta.
8 marzo anche per le donne afghane
Siamo vicini alle donne afghane; tutte quelle donne che in questi mesi hanno visto eliminati i loro umani diritti: da quando i talebani hanno preso il potere hanno vietato la scuola alle ragazze, alle donne è stato di fatto impedito di lavorare nel settore pubblico e comunque sono state estromesse dalle posizioni di governo. A gennaio hanno decretato che le donne che vogliono compiere lunghi viaggi su strada possono farli solo se accompagnate da un parente stretto e ovvviamente di sesso maschile. Inoltre, e’ obbligatorio indossare un “hijab” integrale che copra il volto oltre alla testa. Divieti che si uniscono a quello di fare sport, lavorare, sentire musica, vestirsi come vogliono.
Vorrei ricordare che una giocatrice della nazionale giovanile afghana di pallavolo, Mahjubin Hakimi ancora minorenne, è stata decapitata dai talebani a Kabul in quanto donna sportiva. E prima di lei, uccisa con un colpo id pistola alla testa, una sua compagan di squadra.
E se tutto questo non bastasse alle donne afghane da gennaio è fatto divieto curare la propria igene personale.
I talebani hanno infatti deciso di impedire alle donne afghane delle province settentrionali di Balkh e Herat di recarsi agli hammam, i bagni pubblici diffusi nel mondo islamico; questi rappresentano per molti, nel freddo Afghanistan, l’unica opportunità di lavarsi al caldo, oltre che il luogo deputato al lavaggio rituale. Il timore è che la decisione possa essere estesa a tutto il Paese.