Montecitorio: apologia di uno Scilipoti

(“Apologia di uno Scilipoti” di Lorenzo Farrugio)

Nel corridoio dei passi perduti di Montecitorio,  dopo mesi di desolante procedere a ranghi ridotti e di irrilevanza istituzionale,   si sentono echeggiare i trilli roventi di cellulare. Dall’altro capo della cornetta fanno capolino homines novi incravattati, smaniosi di imparare la grammatica del Manuale Cencelli. Sul display del loro smartphone sopra al numero a 10 cifre compare inesorabilmente la stessa scritta: Bruno Tabacci.

Alla buvette del Senato, tra una tartina e un giro di spritz offerti dal reggente del M5S Vito Crimi, si trovano più intese che intorno ad un tavolo di maggioranza.

Da giorni fanno la spola, dandosi il cambio o facendosi concorrenza a vicenda per intestarsene uno più degli altri, vari cacciatori di teste, talent scout dell’ultima ora interessati non a scovare qualche eccelso profilo finora misteriosamente sfuggito ai radar delle grandi corporate ma a disvelare i panni da statista e pater patriae che ogni buon paracadutato si accorge di incarnare a sua insaputa solo nel momento di massimo bisogno, suo verso il Paese.

A Palazzo Chigi Alessandro Goracci, Capo di Gabinetto di Giuseppe Conte, scrutando dalla finestra che ha Piazza Madama sull’orizzonte, compulsa freneticamente il pallottoliere gongolante, man mano che affluiscono truppe al neonato gruppo senatorio, “Maie – Italia 23”, in origine battezzato “Maie/ Con – te”, in onore e in fasto auspicio al presidente eponimo.

Improbabili riserve della Repubblica, buone per le Segreterie di partito fino a qualche giorno fa solo a schiacciare qualche tasto e ad occultare la pelle sdrucita degli scranni durante le dirette dall’Aula di Montecitorio, vengono colti alla sprovvista da stormi di giornalisti, si fanno sorprendere salutati per nome dai loro whip, si ritrovano ascoltati banditori degli interessi delle loro circoscrizioni e gruppi di pressione.
Mario Turco, Sandra Lonardo, Gianluca Castaldi, Riccardo Nencini, Goffredo Bettini e Gianni Letta. Lungo i corridoi di Montecitorio e di Palazzo Madama, in queste ore, si affastellano  i nomi e i numeri dei pontieri con più Sottosegretari che voti.
Monteciorio e Palazzo madama riscoprono la loro centralità. E lo fanno per il più umano dei valzer, in una danza di ambizioni e miserie.

I più bolivariani avrebbero fatto presto ad appellarli peones. I più attenti alle minoranze li apostrofano come trans – fughi, qualche reduce di Pontida potrebbe confonderli coi profughi. Franceschini con un atto a metà tra il reframing e il gaslighting li ha battezzati per primo “Costruttori” – di pace e maggioranze, forse scambiandoli coi suoi quasi omonimi francescani – a
sottolinearne la vocazione missionaria e filantropica.

Irresistibile la tentazione di Di Maio, da buon Ministro degli Esteri, di aggiungerne l’epiteto “europei” dato che di questi tempi l’UE potrebbe scoprirsi così generosa da inviarci in mezzo ai suoi lauti fondi pure qualche puntello dalle supreme assemblee d’Oltralpe, magari anche lui in cerca di sistemazione con vista mare a seguito di improvvidi tagli al numero dei parlamentari.

Ad evocare invece latitudini più esotiche ci ha pensato l’immarcescibile Sindaco di Benevento, già detentore del brevetto sulle invitte “truppe mastellate” e leader di un defunto partito, l’UDEUR, così capace di fare tesoro del bipolarismo da ritrovarsi sotto la doccia di centrodestra, dopo essere andato a dormire di centrosinistra. Memore degli antichi fasti dell’emiciclo, dove un tempo si pasteggiava a mortadella e spumante durante la conta, l’Ho Chi Minh di Ceppaloni, al secolo Clemente Mastella, ricorre all’immaginario hollywoodiano di Full Metal Jacket per prestare la temerarietà bellica dei Vietcong ai volenterosi,
pronti all’imboscata di votare la fiducia all’impazzata al claudicante gabinetto dell’avvocato del popolo. In un angolo in penombra di Palazzo Madama rifiorisce l’auge defilata del Misto, tela di Arianna di ogni intreccio, l’unico gruppo ininterrottamente presente fin dalla I legislatura, vero garante e depositario della continuità e stabilità della nazione.

Staranno prudendo le mani all’eroe delle due Coree, Antonio Razzi, così come ai suoi sodali Scilipoti e De Gregorio, a vedere la disparità di trattamento che la Storia ha voluto riservare loro rispetto ai comprimari dei tempi nuovi. Eppure dovrebbero essere felici perché così fecondo è stato il magistero del loro precursore esempio da aver informato da avanguardia visionaria i destini e riti della Terza Repubblica. E pazienza se fino a ieri l’altro i portavoce pentastellati gridavano oltranzisti al vincolo di mandato, allo scandalo dei cambi di casacca, all’ignominia delle stampelle di maggioranze Brancaleone che pur di salvare il vitalizio capovolgevano il mandato degli elettori.

Altro che “straccioni di Valmy” alla Cossiga o trasformisti alla De Pretis, salvare il Paese non è più un compito ingrato, fa vincere anche la comparsa, in legge di bilancio o nel primo decreto omnibus utile, di una poetica aliquota IVA agevolata sui tartufi, della pittoresca ristrutturazione di un immobile comunale a Castellammare di Stabia o dell’assegnazione in quota romantica nel CdA dell’Istituto Incremento Ippico per la Sicilia.

Di fronte a così alti uffici anche Henry Kissinger avrebbe protestato: “Non ci può essere una crisi la settimana prossima, la mia agenda è già piena”.

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