È sempre vero che quando un libro arriva al cinema questo non sarà “mai” come lo avevamo immaginato. Ma in alcuni casi, come in “The Lost Daughter” di Maggie Gyllenhaal, del libro ha solo il titolo.
Si perchè il film proiettato ieri, 3 settembre, durante la Mostra del Cinema di Venezia è la trasposizione cinematografica del libro “La figlia oscura” di Elena Ferrante. Nel libro la napoletana Leda va semplicemente al mare, nel film Leda è una signorotta inglese che finisce in Grecia.
La storia parla di Leda, Olivia Colman, sola in una località di mare che osserva ossessivamente una giovane madre, Dakota Johnson, e la figlia in spiaggia. Turbata dalla complicità del loro rapporto e dalla loro chiassosa e sinistra famiglia, Leda è sopraffatta dai ricordi; ricordi legati allo sgomento, allo smarrimento e all’intensità della propria maternità. Un gesto impulsivo catapulta Leda nello strano e minaccioso universo della sua stessa mente; così è costretta a fare i conti con le scelte anticonformiste fatte quando era una giovane madre e con le loro conseguenze.
Tralasciando le dovute differenze di adattamento dall’opera di Elena Ferrante, non sempre vincenti, il film non riesce a definire e soprattutto ad approfondire i motivi che hanno causato la frattura interiore di Leda. Una grave mancanza che depotenzia sia la seconda metà del film che il finale, che non si dimostra potente nei confronti del pubblico. Si aggiungono alcuni personaggi e alcune sequenze che sembrano avere poco a che fare con il fulcro della storia.
La cosa che esce fuori nel film è la maternità: è lei il centro del film in concorso alla Mostra del Cinema. Il confronto tra le storie di Leda e di Nina permettono di portare avanti il discorso e di evidenziare le dinamiche tra madri e figlie.
Maggie Gyllenhaal ha dichiarato: “Quando ho letto il romanzo La figlia oscura, mi sono sentita pervadere da una sensazione tanto strana e dolorosa quanto innegabilmente vera. Una parte nascosta della mia esperienza di madre, compagna e donna stava trovando voce per la prima volta.
E ho pensato a come fosse entusiasmante e pericoloso dare vita a un’esperienza come quella non nella quiete e nella solitudine della lettura; ma in una stanza piena di esseri umani dotati di vita pulsante e sensazioni. Come ci si sente a essere seduti accanto alla propria madre; al proprio marito; alla propria moglie o figlia nel momento in cui sentimenti ed esperienze comuni a lungo taciuti, trovano invece voce? Ovviamente esiste una sorta di sgomento e pericolo nel relazionarsi a qualcuno alle prese con cose che ci sono state dipinte come vergognose o sgradevoli.
Ma quando quelle esperienze vengono portate sullo schermo, esiste anche la possibilità di trovare conforto: se qualcun altro formula quegli stessi pensieri e prova quelle stesse sensazioni, forse non si è soli. Questa è una parte della nostra esperienza che di rado trova espressione e, quando ciò accade, è per lo più attraverso l’aberrazione, la dissociazione o il sogno.“