È tornato a casa Gerry Scotti. Asintomatico all’inizio: “Febbriciattola, stanchezza, colpi di tosse. Una settimana e passa tutto, pensavo. Invece no”.
Per Gerry, 64 anni, si aprono le porte dell’ospedale: “Al secondo controllo al Covid Center dell’Humanitas a Rozzano mi è stato consigliato di rimanere da loro perché avevo tutti i parametri sballati: fegato, reni, pancreas. Ero già nell’unità intensiva, perché quando entri nel pronto soccorso del Covid Center non c’è l’area rinfresco, l’area macchinette, l’area vogliamoci bene: si apre una porta e da lì in poi vedi tutto quello che hai visto nei peggiori telegiornali della tua vita. Sono diventato verde, ho sudato freddo”.
La sua paura più grande, quella di finire in sala rianimazione e finire intubato: “I medici mi dicevano di non spaventarmi: non la mettiamo in terapia intensiva ma in una stanza a fianco perché abbiamo bisogno di monitorarla, per sapere se la sua macchina, il suo corpo, ha bisogno di cure particolari. Ero in una stanzina, di là c’era la sliding door della vita di tantissime persone. Con due altri pazienti ci strizzavamo l’occhio, dai che ce la fai. Ho appurato stando lì, due notti e un giorno che quella era l’ultima porta. Se decidevano di aprire quel varco… Io li vedevo tutti, vedevo 24 persone immobili, intubate, come nei film di fantascienza. Pregavo per loro invece che pregare per me”.
E continua: “Sono arrivato all’ultimo step indolore della terapia prima che ti intubino. Per un paio di giorni a orari alterni ho dovuto indossare l’ossigeno anche io, è stato un toccasana. Ricordo lo slogan: il casco ti salva la vita. Adesso ho capito bene di che casco si tratta. Poi una mattina hanno girato indietro il letto e mi hanno riportato nella mia stanza”.
Parla poi di Carlo Conti: “Non voglio fare torto a nessuno, cito solo Carlo Conti, perché abbiamo vissuto un’esperienza in parallelo. Io gli chiedevo: quanti litri di ossigeno? Lui mi rispondeva 4. E io invece stavo ancora a 5. E la pastiglia, te l’hanno data? Abbiamo fatto come Coppi e Bartali.”