Sei anni fa, il 24 agosto 2016, il terremoto ad Amatrice

di Claudio Chiarabba (INGV – Direttore del Dipartimento TERREMOTI )

Seianni da un terremoto che ha sconvolto l’Appennino centrale, sei anni dall’inizio della sequenza più importante che abbiamo vissuto all’INGV.

In venticinque anni abbiamo assistito a un progressivo sgretolamento di un settore della catena appenninica lungo più di 150 km, da Nocera Umbra a L’Aquila. Ricordo il titolo di un articolo che scrivemmo tempo fa per la rivista Sapere, era il 1998, era da poco avvenuta la sequenza di Colfiorito, tra Umbria e Marche: “Quei brividi lungo lo stivale”, ancora non ne conoscevamo gli aspetti più drammatici. In due decenni sono stati fatti significativi passi avanti nel capire il processo sismico e i suoi effetti.  Una delle principali conclusioni del primo articolo scritto dopo il terremoto di Colfiorito era che l’Appennino è in estensione. Oggi, dopo 20 anni di sviluppo di infrastrutture sismologiche e geodetiche e intensi studi, abbiamo una visione di dettaglio del processo e sappiamo che la deformazione dell’Appennino è lenta, 2-4 mm/anno di estensione perpendicolare alla catena, che si manifesta con terremoti normali su faglie ovest immergenti, in questo settore centro settentrionale.

Le sequenze simiche in Appennino centrale del 1997-98 (in blu), 2009 (in giallo), 2016 e 2017 (arancio e rosso).

Oggi abbiamo una visione più chiara delle zone ad alta deformazione e nelle quali un deficit di slip (quindi presumibilmente più prossime alla rottura) è potenzialmente presente. Ciononostante, non emergono ancora chiare evidenze che la deformazione acceleri prima di un evento sismico. Le scosse principali della sequenza sismica del 2016-2017 hanno mostrato una forte complessità della sorgente. Sono state generate diverse rappresentazioni cinematiche dei terremoti utilizzando dati sismologici e geodetici. Sono state ricostruite le aree di faglia a maggiore spostamento (asperità) e osservato come parte della complessità del processo di rottura sia legato a variazioni reologiche e strutturali sui piani di faglia. Sono stati generati modelli di propagazione delle onde elastiche in mezzi complessi e degli effetti e impatti. Un’osservazione molto interessante è quella relativa alla fagliazione superficiale prodotta dalle scosse principali. Gli spostamenti su una serie di piani sono stati mappati per una lunghezza significativa. È sicuramente la serie di terremoti in Italia che ha generato osservazioni di superficie più evidenti, e ben caratterizzate, dopo quelli osservati per la prima volta a seguito del terremoto dell’Irpinia del 1980. La complessità osservata lascia aperti interessanti aspetti da risolvere su come la dislocazione in profondità (sulle cosiddette “asperità”) sia collegata a quanto avviene in superficie e, all’inverso, su quanta informazione possiamo estrarre sul processo sismico leggendo le tracce dei terremoti in superficie.

Una particolarità della sequenza sismica del 2016 è che sullo stesso piano di faglia si è avuto uno spostamento in superficie per entrambi i due eventi principali del 24 agosto e del 30 ottobre, mentre lo spostamento in profondità è stato ricostruito su porzioni diverse dello stesso sistema.

Un altro aspetto degno di nota e originale per la sequenza del Centro Italia del 2016 è quello collegato all’analisi dei “big data”.La serie di aftershocks è stata ricostruita con un dettaglio senza precedentianalizzando le forme d’onda registrate a stazioni permanenti e temporanee con sistemi interamente automatici. È stato creato un dataset di oltre 900.000 eventi la cui analisi ha permesso di iniziare studi senza precedenti sull’anatomia delle faglie, la distribuzione di magnitudo nello spazio e nel tempo, sullo sviluppo di procedure di forecast degli aftershocks. La grande mole di dati ha anche permesso di intraprendere studi di dettaglio sui processi sismogenetici. Studi di “time-lapse” tomography 4D (in pratica le variazioni della struttura della crosta nel tempo) hanno permesso di riconoscere un aumento delle velocità sismiche prima del mainshock del 30 ottobre, un possibile indizio del caricamento dell’asperità prima della rottura.

La sequenza del 2016 ha rappresentato inoltre un momento di intensa attività per le infrastrutture del nostro Ente, dalla turnazione nella Sala Operativa che è stata rafforzata, ai servizi associati al reperimento dei dati in campagna, all’analisi dei dati collezionati, alla creazione di bollettini sismici con un numero di eventi impressionante. Il contributo di tutto il personale dell’Ente è stato notevole e importantissimo.

Dove siamo oggi?

Sicuramente abbiamo di fronte una mole di dati ancora da analizzare per scoprire con sempre maggior dettaglio la fisica dei terremoti.  L’impressione è che la quantità di informazione che possiamo ancora estrarre sia notevole e che meriti un profondo esame. L’insieme dei dati acquisiti finora ci ha permesso di capire sempre più a fondo come si deforma l’Appennino e come si generano ed evolvono le sequenze sismiche, e ad approntare una serie di prodotti utili in tempi rapidi. La constatazione generale che un settore esteso della catena appenninica sia stato progressivamente interessato da rotture sismiche in un ambiente di basso carico tettonico, dove la variazione di carico sulle faglie nel giro di pochi anni è bassa, ci porta a pensare come fenomeni ditriggering possano essere rilevanti per far accadere un terremoto in un preciso istante temporale. Studi mirati a riconoscere eventuali processi di innesco, capaci di destabilizzare faglie vicine allo stato critico, e i segnali che possono essere generati o correlati risultano potenzialmente promettenti.

Rimane sempre da capire perché un terremoto avviene qui e ora.

Claudio Chiarabba (INGV – Direttore del Dipartimento TERREMOTI )

 

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Redazione

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