Oggi, 14 febbraio, sono passati esattamente 17 anni dalla misteriosa scomparsa di Marco Pantani. Una morte che ha privato lo sport italiano di una leggenda come poche si sono viste.
Era il 14 febbraio del 2004, quando il corpo del ciclista è stato ritrovato nel residence Le Rose a Rimini, per intossicazione acuta da cocaina e psicofarmaci antidepressivi, che ha portato ad un edema polmonare e celebrale.
Dopo ben due inchieste, nel 2017, si è giunti finalmente ad un verdetto della Cassazione, dichiarando che il Pirata non è stato vittima di un omicidio. Verdetto che non è stato mai accettato dalla famiglia di Pantani, ma ne anche dai suoi tifosi, che considerano la morte del loro bengalino un giallo irrisolto.
Su Marco Pantani sono state dette e scritte molte cose. È stato paragonato a chi ha reso grande il ciclismo, come Coppi e Bartali. Molti lo hanno dipinto come il un simbolo di riscatto, a causa dei suoi infortuni che ne hanno segnato la carriera.
Chiunque guardava una sua gara rimaneva incantato nel vedere la sua forza e la sua determinazione. Non mollava mai, neanche quando ormai era senza respiro e grondante di sudore. Regalando al proprio pubblico emozioni immaginabili, ed insegnando che nulla è impossibile, finche non ci provi con tutto il cuore.
O almeno questo che mi ha trasmesso il Pirata.
Il 12 ottobre 2020, in più di 300 sale cinematografiche Italiane, hanno trasmesso Il Caso Pantani – L’omicidio di un Campione, diretto da Domenico Ciolfi. Una pellicola che passa dal biografico al dramma fino al cinema d’inchiesta, raccontando particolari inediti sulla morte del ex ciclista.