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Per i fondi italiani bene la raccolta, ma i rendimenti…

Nella stagione dei bilanci quello dell’industria del risparmio gestito italiano può sicuramente annoverare lo scorso anno tra i più positivi dell’ultimo quinquennio. La raccolta di poco inferiore ai 92 miliardi di euro e la crescita del 7% del patrimonio a 2582 miliardi sono cifre inequivocabili di uno stato di salute invidiabile e testimonianza di una marcata propensione degli Italiani a orientarsi in larga misura verso questa forma di impiego dei propri risparmi.

C’è, però, un dato che rende la nostra industria del risparmio gestito non competitiva nei raffronti su scala europea, i rendimenti netti riconosciuti agli investitori.

Lo conferma, anche, una recente analisi condotta dal Centro Studi di Tosetti Value, uno dei principali Multi – Family Office in Europa, secondo cui nel 2021, facendo riferimento alle prime 10 Società di Gestione del Risparmio Italiane, il rendimento del 6,4%, certamente non disprezzabile in un mercato finanziario dai tassi ancora molto contenuti, si rivela nella realtà pari al 50% di quello ricavabile da investimenti nelle top 30 Società europee (12,7%).

Quali sono le ragioni di questo divario così generalmente vistoso e ancor più marcato  rispetto ad alcuni esempi di eccellenza, quali BlackRock, Vanguard e Morgan Stanley? Fondamentalmente due, sempre secondo Tosetti Value.

La prima ragione risiede nella composizione dei portafogli, che vede nelle Società di Gestione Italiane una presenza della componente azionaria, a maggior rendimento, assai più contenuta rispetto  a quanto si registra in quelli amministrati dalle Società Europee (21,5% contro 48,9%). Anche se negli ultimi anni la crescita dell’equity sta comunque continuando, il ribilanciamento nei confronti della componente obbligazionaria appare molto lontano dal raggiungere le proporzioni registrate su scala continentale. Una minore propensione al rischio, ma anche una cultura finanziaria tradizionalmente differente costituiscono, in effetti, fattori complessi da rimuovere nell’orizzonte del nostro Paese.

La seconda ragione tocca l’aspetto del livello delle commissioni applicate, che lo scorso anno in Italia ha registrato, sotto forma di oneri ricorrenti, l’1,46%, contro lo 0,95% europeo. Anche in questo caso il divario non si configura come un elemento di natura transitoria, in quanto il maggior costo commissionale del risparmio gestito in Italia, rispetto agli esempi europei, costituisce, purtroppo, una caratteristica costante nel tempo; favorita, in alcuni casi, da una persistente opacità nell’evidenziazione dei costi alla clientela. In questo ambito il miglioramento dell’educazione finanziaria potrebbe contribuire al restringimento di questo divario.

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