Colpo di Stato in Myanmar: dall’indipendenza del ’48 alle persecuzioni

Dicono che la libertà non abbia prezzo. Una “frase fatta” quanto scomoda, soprattutto quando, quella stessa libertà chiama costantemente al suo capezzale coloro che la cercano tanto, chiedendo loro di pagare con la stessa vita. Non è il luogo questo per poter fare filosofia, ma la storia sì e oggi, la Birmania, o Myanmar, mostra quanto quello che sta accadendo in questi giorni sia estremamente vero.

Myanmar, nota come Birmania, ha ottenuto la propria indipendenza nel 1948 dal Regno Unito (dopo il primo distacco nel 1937) e da quel momento la democrazia ha preso possesso del potere. Finché nel 1962 ci fu un Colpo di Stato da dittatura militare. Solo quarant’anni dopo, nel 2010 per l’esattezza, coloro che tenevano in pugno il potere hanno allentato la loro presa scarcerando prima fra tutti  Suu Kyi, leader della Lega Nazionale per la Democrazia. Per passare poi alla fase successiva: elezioni libere parziali nel 2012 e generali nel 2015.

Questo, come si suol dire, fu l’inizio della fine o almeno, il caos per Myanmar. Un lento processo nato da quelle elezioni che furono chiamate libere. Ma oggi libero è un termine che va usato con cura. Come andarono i fatti?

Aung San Suu Kyi al potere

Il 13 novembre 2010, Aung San Suu Kyi, figlia di Aung San, Premio Nobel per la Pace 1991 nonché, l’uomo che ha portato la Birmania all’indipendenza, torna ad essere libera dopo anni trascorsi ai domiciliari. Prima che ciò accadesse, ci furono le elezioni e le urne furono boicottate dai “democratici” di  Suu Kyi.

L’anno successivo, la Presidenza della Birmania va a Thein Sein, generale e politico. Sotto di lui, furono diverse le riforme che presero vita e tra queste il rilascio dei prigionieri politici. Al termine dello stesso anno, la Lega Nazionale per la Democrazia, viene ufficialmente legalizzata e questo le permette di poter partecipare alle elezioni politiche. Fu così, che il 1 aprile del 2012, Suu Kyi ottiene molti voti e viene eletta parlamentare. Tre anni dopo, nel 2015, quei moltissimi voti si trasformarono in una vittoria clamorosa, ma non del tutto inaspettata. L’anno dopo, dalla presidenza passa a Ministro degli Esteri e Consigliere di Stato.

Il massacro dei rifugiati Rohingya

E’ strano come la democrazia continui imperterrita ad essere associata a parole come massacro e morte. Eppure, da secoli la storia ci insegna, che il colpo mortale lo sferra sempre colui che dovrebbe guardarci le spalle. L’etnia dei Rohingya è considerata una delle più perseguitate al mondo. A dirlo non sono fonti campate in aria, ma le Nazioni Unite.

Da sempre considerati gli “immigrati irregolari“, nonostante vivano in Birmania da moltissimi anni. Ma alle frange estremiste della città, questo non interessa. Dopo la fine della dittatura militare nel 2011, furono uccise 200 persone e migliaia furono costrette a fuggire. Persecuzioni che sono costretti a subire da quel lontano 1948, quando la Birmania fu “libera”, ma di gran lunga peggiorate nel 2017, quando la situazione diventò fortemente critica. Ad inficiare, ulteriormente, nel dicembre di quello stesso anno, il Governo birmano ha impedito alle Ong di fornire assistenza umanitaria. Questo dimostra come il popolo Rohingya sia da sempre considerato dal Governo e dall’esercito, immigrato e illegale. Suu Kyi non si è mai opposta di fronte a quel massacro e mentre i militari procedevano indisturbati nel loro intento di “sterminare” i Rohingya, The Lady (soprannome di Suu Kyi) faceva passare l’accaduto come Fake news.

Nel 2018, Amnesty International ha revocato il premio di Ambasciatore della coscienza ad  Suu Kyi, con l’accusa di mancata salvaguardia dei diritti umani del suo Paese.

Anno 2020. Elezioni illegali 

L’8 novembre 2020, vittoria schiacciante per  Suu Kyi e della Lega nazionale per la democrazia, che ottengono l’83% dei seggi in lizza. I militari li accusano però di brogli elettorali con 10 milioni di voti truccati. Per tale motivo, l’Usdp (Union Solidarity  and Development Party) richiede nuove elezioni, organizzate però dall’esercito.

Il 30 gennaio scorso si parla di Colpo di Stato e due giorni dopo, l’esercito arresta San Suu Kyi e dichiara lo stato di emergenza per un anno. Nel frattempo, Myint Swe, nominato presidente ad interim dall’esercito del Myanmar, assicura che si tratta di colpo di Stato “costituzionale”.

Foto storica: una suora in ginocchio davanti alla Polizia

Da tre mesi ormai il Myanmar sembra non trovare tregua e nella speranza di pace in un scenario di guerra: una foto rimarrà nella storia. Durante una protesta pacifica da parte di alcuni studenti, nella città di Kachin, nel Nord del Myanmar, una suora si è inginocchiata di fronte agli agenti di Polizia con un’ unica silenziosa speranza: fermare quello scempio.

Suor Ann Nu Thawng, della Congregazione religiosa di San Francesco Saverio,  è il simbolo di una giornata, quella del 28 febbraio, che ha visto morire 18 dimostranti e ferirne 30. Eppure di fronte a quel gesto, la Polizia si è fermata. Davanti alla supplica di chi ha chiesto pace, gli agenti hanno risposto fermandosi. Nel convento della suora, sono moltissimi i giovani che vi si sono rifugiati per proteggersi dall’attacco brutale dei poliziotti.

Chi è Myin Swe

Proprio nel giorno in cui i vincitori delle elezioni si sarebbero dovuti riunire a Naypyidaw per l’inaugurazione del nuovo Parlamento, un Colpo di Stato ha fatto ripiombare Myanmar in un clima di terrore. E così, in poco tempo, il Generale Min Aung Hlaing ha nominato Myint Swe, ex Generale, Presidente ad interim. 

Si tratta di uno dei preferiti del Genere Than Shwe, “padrone” di Myanmar dal 1992 al 2011. Il suo è sempre stato considerato un ruolo chiave nei rapporti con i militari e la politica del Paese, ma è noto soprattutto per gli eventi che lo hanno visto protagonista. Detiene il maggior numero di arresti durante la protesta dei monaci buddisti nel 2007; una manifestazione terminata con molti arresti e la morte di decine di persone.

E mentre il popolo del Myanmar sta tentando di lottare pacificamente contro i militari che hanno il pieno controllo del Paese, i giovani muoiono, le città si distruggono e “The Lady”, Suu Kyi, è accusata, oltre di importazione illegale di walkie-talkie e violazione della legge sulla gestione dei disastri naturali, anche di aver violato in campagna elettorale le restrizioni imposte per contenere i contagi da Coronavirus e di aver provocato paura e allarme.

Aung San Suu Kyi rischia fino a tre anni di carcere. 

La storia ci insegna un’altra cosa, ma non solo oggi: siamo sicuri che esista la libertà?

 

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