Democrazia sì, ma raggiro e tradimento no

C’è un dato di fatto inconfutabile nel mondo della politica: un conto sono le parole, dette molte volte come mera provocazione o per fare propaganda,  e un conto sono i fatti di cui deve occuparsi chi governa, che non può permettersi il lusso di spendersi in slogan, chiacchiere, divagazioni o false promesse,  perché ha il compito di gestire realisticamente e responsabilmente la “cosa pubblica”.

In un paese dove vige la democrazia tutti possono esprimere liberamente le proprie opinioni, tanto più nelle questioni che riguardano la politica, dove  è legittimo assistere ai cambiamenti di indirizzo delle varie correnti di Partito, perché questo difficilmente può essere ideologicamente perfettamente omogeneo e quindi è normale che ospiti nelle proprie fila un legittimo e democratico pluralismo di opinioni.

Si può essere, pertanto, conservatori, liberali, socialisti, progressisti in vari modi,  ma sempre coerentemente ai principi e ai valori fondanti del Partito di cui si è parte attiva e all’interno del quale è normale che le diverse “idee” democraticamente circolino e si confrontino.

Divisioni, scissioni e a volte scioglimento di correnti politiche o addirittura di uno stesso Partito,  non possono essere esclusi a priori e come tali rientrano nelle dinamiche della dialettica e del libero confronto della politica con le quali, nolenti o volenti, il popolo deve fare i conti.

Di certo, sono cambiamenti di opinioni e di indirizzi che possono emergere democraticamente durante il prosieguo di una legislatura, in occasione di una campagna elettorale, ma non dopo aver illustrato agli elettori il proprio programma politico sul quale costoro hanno creduto e si sono espressi a favore con il voto.

Se, tuttavia, i cambiamenti delle promesse e dei programmi, grazie ai quali i leaders hanno ottenuto la fiducia dei popolo, avvengono dopo l’esito di una consultazione elettorale, è come se gli elettori, che hanno posto loro la fiducia, fossero stati raggirati e traditi.

Pertanto, il mancato accordo sul Partito unico, platealmente annunciato e osannato in campagna elettorale e che si sarebbe dovuto costruire sinergicamente tra l’Italia dei valori di Matteo Renzi  e Azione di Carlo Calenda, ha il deludente sapore di un tradimento per tutti coloro che vi hanno sperato, che vi hanno creduto e che l’hanno sostenuto con il proprio voto.

Ovviamente, non ha molto a che fare con le regole della democrazia liberale, tanto decantata dal solito “Matteo” che, manco a farlo a posta,  è un nome che, di questi tempi, in politica, a parte le dovute eccezioni è un sinonimo di scarsa coerenza e di  discutibile credibilità, sia politica che istituzionale.

Per il resto, mentre per Matteo  Renzi inizia una nuova stagione come direttore di un giornale con uno sguardo rivolto al vuoto che potrebbe crearsi nelle file di Forza Italia,  a Carlo Calenda, non resta che accusare il colpo, ridisegnare il futuro di Azione e soprattutto essere più cauto nello scegliere le alleanze, soprattutto evitando di commettere l’errore di fidarsi di chi ci ha abituato a improvvisi e inattesi cambiamenti di rotta, ma certamente più che prevedibili.

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