Perché chiedere giustizia quando si parla di “pace”? La storia di Andrea Rocchelli

Andrea Rocchelli, molti lo chiamavano Andy, era nato a Pavia il 27 settembre 1983. Era un giornalista e fotoreporter, fondatore del collettivo fotografi Cesura insieme ad altri quattro fotografi. Ha portato a termine lavori storicamente (e politicamente) impegnati e impegnativi, ma il suo nome è diventato “un nome” dopo la sua morte. Il destino di molte firme note. Qualcuno potrebbe dire: divenire famosi solo dopo essere passati a miglior vita. Andrea ha fatto parlare per mesi dopo la sua uccisione, per poi ritornare nelle pagine di cronaca da poche settimane, quando l’Occidente si è ricordato che esiste una parte del mondo dove la morte, oggi più che mai, ne fa da padrona. Una guerra che oggi fa rumore, ma trascinata da un conflitto silente che non ha mai destato grande attenzione, facendo sì che il mondo gravitasse nell’errore di non sapere. 

Proprio negli anni di un est dimenticato, il 24 maggio 2014 ad Andreevka, nell’Ucraina orientale, Andrea Rocchelli e l’interprete che lo accompagnava, Andrej Nikolaevic Mironov, sono stati uccisi a colpi di mortaio dall’esercito ucraino. Secondo la Giustizia Italiana, il colpevole fu il soldato italo-ucraino Vitaly Markiv, facente parte della Guardia nazionale di Kyiv e condannato a 24 anni di carcere. Il 3 novembre 2020, Markiv è stato assolto.

Chi aiuta e chi infanga. Italia e Ucraina 

Tirare fuori la verità è una frase che non dovrebbe mai essere detta. Ci appelliamo sempre al fatto che la verità assoluta non appartiene a questo mondo – ancora meno in tempi di guerra – quando quella stessa verità non soltanto non si può sapere, ma è meglio non raccontarla. 

Una volta appreso questo concetto si è liberi di: leggere, credere, farsi un’idea, tentare di capire e acquisire una notizia al solo fine di conoscere, ma senza la presunzione di voler sapere. 

Trasportati dall’onda di raccontare ciò che sappiamo senza imporre il proprio intimo pensiero, ci siamo soffermati sulle parole di un militare intervistato dalla Rai. Secondo il suo racconto, i colpi che hanno ucciso Rocchelli, sono stati ordinati dal Comandante della 95esima Brigata, Mikhailo Zabrodskij, attualmente deputato presso il Parlamento ucraino e membro del gruppo per le relazioni interparlamentari con l’Italia. 

Il termine giustizia andrebbe di tanto in tanto analizzato. Anni di carcere per la morte di qualcuno è solo un temporaneo palliativo che permette a chi cerca una risposta di farsi andare bene una condanna. Sappiamo bene che non sempre è così. Nel caso di Rocchelli lo è ancor di più il fatto che dopo la sentenza che ha condannato Markiv a 24 anni di reclusione, ne è seguita quella che lo ha assolto dopo le pressioni del Presidente ucraino Volodymyr Zelensky e l’intervento del Ministro dell’Interno Arsen Avakov, molto vicino al Battaglione Azov. 

Che bella la solidarietà italiana che applaude alla democrazia e al coraggio di Zelensky, mettendo da parte quella che in un contesto di guerra, come quello che stiamo vivendo, può essere solo che un capriccio. Perché parlare di giustizia quando si può sperare nella pace? Quella stessa pace che meriterebbe dibattiti su dibattiti. 

Che bella l’Italia che avanza, che stringe mani, firma aiuti, stanzia soldi e dimentica ciò che fu. Perché forse l’unica verità sul nostro Paese l’ha detta Putin: “L’Italia è un Paese che dimentica velocemente”.

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