Ernesto Lamagna,l’artista tra il vecchio e il nuovo millennio.

“Nella seconda metà del ventesimo secolo, mentre genii come Warhol e Pollock rivoluzionavano il mondo dell’arte, muoveva i primi passi il giovane Ernesto Lamagna. Formatosi a Napoli, inizia presto a lavorare tra Roma e Verona, lavorando gomito a gomito con i grandi del suo tempo, sino a diventare in maniera indiscussa uno dei più grandi artisti del ‘900 e del nuovo millennio.

In un mondo in cui tutto cambia perché nulla cambi, Ernesto Lamagna, definito da Claudio Strinati “lo scultore degli angeli”, ci parla della sua arte, della sua umanità e delle sue radici, le stesse che tutt’oggi animano il suo lavoro.

Lo abbiamo intervistato in esclusiva per TF news, nella sua casa-atelier a Roma”.

Maestro Lamagna, lei è scultore tra due secoli, o meglio tra due millenni. Dove si colloca meglio?

“Personalmente credo di essere uno degli ultimi scultori del ‘900, innanzitutto perché sono uno di quelli scultori come lo era Fazzini, Minguzzi, Manzù, artisti padroni del mestiere. Ho imparato da loro, rubando con gli occhi nelle fonderie. Non sono diventato scultore all’accademia, sono diventato scultore “rubando” e lavorando accanto a questo grandi maestri. Quando si lavora in fonderia, si lavora gomito a gomito, a 5 metri, mentre io ritocco la mia cera l’altro ritocca la sua, e così ho avuto la possibilità di apprendere il mestiere”.

Qual’è l’incontro che più le piace ricordare?

“Penso ad esempio a Crocetti, con il quale mi incontravo spesso a Verona. Dormivano nello stesso albergo, lui partiva con il treno (era già avanti con gli anni), e a Verona lo venivano a prendere in stazione. Passava tutta la giornata in questa piccola fonderia, lavorando la cera, la ritoccava, con un modus operandi che solo i padroni di questo mestiere hanno. Penso poi a Emilio Greco che mi diceva: “Consiglio ai miei allievi innanzitutto di diventare padroni della tecnica, poi se hanno qualcosa da dire avranno certamente possibilità di dire quel che hanno da dire”. La tecnica quindi, prima di qualsiasi forma di comunicazione”.

Sono loro dunque, i maestri che hanno influenzato la sua opera?

“Per quanto riguarda il mio stile, sono stato influenzato da tutti e da nessuno, ho molto lavorato anche affianco ad altri, da Marino Marini a Fazzini, ma fin da subito ho portato avanti un mio linguaggio, navigando contro corrente. Questo perché ho guardato sempre alle mie spalle, e non ai grandi nomi che erano in America o in voga nel momento. Ho seguito i maestri che mi hanno preceduto, ancora viventi all’epoca, cercando le mie radici, le radici dell’arte italiana. A me, onestamente, un Jackson Pollok non mi interessava, non perché non lo stimassi, ma io guardavo alle mie radici, navigando contro corrente. Non è stato facile, e se avessi voluto fare il furbo per me sarebbe stato un gioco sposare le correnti del momento, ma volevo essere onesto con me stesso”.

Queste erano le persone, ma ci parli ora del clima, dell’ambiente che si respirava in quegli anni

“Non si può descrivere un “clima” senza che tornino alla mente le persone. Avevo uno studio di mia proprietà alla Minerva, attaccato alla Chiesa e a venti metri da Poggi, il coloraio storico di via del Gesù. Lì ho avuto modo di conoscere tanti artisti, dalla scuola di Piazza del Popolo, Mario Schifano, Tano Festa, Balthusse, li ho conosciuti tutti li. Era una vita molto semplice, ma piena di colori appunto! Si andava a mangiare a pochi metri da Poggi, in una vecchia bottega di Vino e Olio con un retro bottega: non c’era neanche la cucina.  C’erano due pentoloni grandi di rame con la resistenza elettrica, fagioli e cotiche, fagioli e salsicce, e li ci ritrovavamo a mangiare con gli artigiani del posto di cui il centro era pieno, c’era Peikov, con il fratello pittore, Franco Angeli, Schifano, Ontani, compravamo i colori e poi mangiavamo li. Io ero il più piccolo. Erano gli anni ’70, gli anni del rapimento Moro, anni di confusione, disordine. Quando rapirono Moro e si diffuse la notizia, ci fu come un ordine dall’alto:  i negozi della zona del Pantheon, della Minerva, chiusero tutti. Moro fu poi trovato, purtroppo morto, a pochi metri da noi. Ogni sabato c’era una manifestazione, un autobus di traverso in Piazza Vittorio, solitamente gli davano fuoco ed iniziava una vera  e propria guerriglia. Noi artisti lavoravamo li, a pochi metri, nella cornice di questo caos incredibile, ma al tempo stesso affascinante, perché ricco di storia, di eventi, di presenze. Era un po’ il centro del mondo, anni estremamente fertili per gli artisti italiani”.

E voi artisti come eravate inseriti in quel contesto così caotico?

“Eravamo artisti, politicamente neanche troppo impegnati. Mario Schifano era il più pittore, Tano Festa era il più poeta, eravamo tutti un po’ scapestrati, lo ero anch’io, ma ho avuto la fortuna di incontrare mia moglie che ha messo ordine nella mia vita. Quando l’ho conosciuta è stata capace di mettere ordine ed equilibrio nella mia vita, di creare una famiglia, due figli che ho cresciuto splendidamente, questo mi ha dato una vita molto “borghese” rispetto agli altri, anche se non sono borghese nella forma mentis, né io né mia moglie, che peraltro è pittrice e restauratrice”.

È nel caos quindi che tutta l’arte di quegli anni ha trovato terreno fertile?

“Credo che nel caos, nell’entropia generale, ci sia sempre qualcosa che ribolle. È qui che l’artista trova più facilmente fermenti, spunti. Sono stati anni molto fertili per l’arte. Oggi c’è l’appiattimento, a mio avviso stiamo vivendo anni molto pericolosi, per l’arte, per la cultura in generale, è una mia opinione, ma senza voler fare politica si può affermare quasi con certezza che stanno cercando di cancellare la nostra cultura, la nostra memoria storica. Vedi…non basta impoverire un popolo per farne quello che vuoi, per gestire un popolo a tuo piacimento lo devi privare delle sue radici, cancellarne la memoria storica, solo li possono fare quello vogliono”.

Lei come vive questi giorni così diversi da quegli anni così illuminanti?

“Io rimango ancorato alle mie radici, con le mie due fortune incancellabili: mi sono formato a Napoli, e ho vissuto a Roma. Ma vi è una terza fortuna, che è stata Verona. Chiudendo le fonderie a Roma fui costretto a lavorare a Verona, che era ricca di fonderie. Oggi stanno chiudendo tutte anche lì, con la crisi dell’arte è arrivata anche la crisi di questi luoghi magici, una fonderia ha bisogno di cuocere per 15 giorni una forma di terra refrattaria, e con i costi dell’energia odierni, il bronzo che è aumentato cinque volte in un anno, e la mancanza di personale specializzato in questa tecnica così antica e difficile, anche le fonderie di Verona stanno subendo la stessa sorte di quelle romane ai miei tempi”.

Ieri lei era giovane tra i maestri, oggi è maestro tra i giovani. Perché ci sono ancora i giovani che seguono i maestri, giusto?

“Guardi, i giovani ci sono, e potrebbero fare molto, ma non abbiamo più le basi. Cominciamo col dire che in accademia una volta insegnavano i grandi maestri per chiari meriti, vedi Manzù, Fazzini.

Oggi purtroppo basta un concorso, ed entrando giovani, dopo un po’ di gavetta d’insegnamento si arriva presto alle grandi accademia, da Roma a Genova, Venezia, ma non ci sono più i grandi maestri.

Oggi abbiamo nelle accademie titolari di cattedra che non sanno modellare, che non sanno disegnare. Basti pensare che al Ripetta hanno tolto il disegno, che è stato la base, soprattutto per gli scultori. Una scultura nasce dal disegno, poi il bozzetto, e poi la scultura. Il pittore disegna più con il colore, lo scultore ha bisogno del bianco e nero, del carboncino, deve vedere i volumi.

Di recente sono stato in visita all’accademia di Verona, ho visto di tutto, pezzi di scope, paglia, ma non ho visto una creta. I giovani ci sono, ragazzi sensibili, che potrebbero esprimere molto, con gli strumenti giusti”.

In che modo prova a dare il suo contributo per le prossime generazioni?

“Ultimamente ci sono state le elezioni amministrative per il comune di Verona, si presentava Flavio Tosi. Abbiamo fatto una conferenza su questo tema: Verona era la città che aveva il maggior numero di fonderie artistiche d’Italia, ecco perché ho lavorato a Verona per 40 anni, con bravissimi fonditori, oggi ne sono rimaste un paio: una con 3 operai anziani, che il proprietario chiama quando ne ha bisogno, ed un’altra dotata di grandi talenti a Vicenza. A Verona per decenni hanno fuso artisti come De Chirico, Pommodoro, Crocetti, e tanti altri italiani ed europei. Nessuno sa che sculture che oggi si trovano a Roma, o in ogni parte del mondo, sono state create li. Avevo quindi proposto la creazione di Isole nel centro storico, lungo il percorso da piazza Bra a piazza delle Erbe, dove queste sculture una volta fuse e prima di esser portate via, avrebbero potuto rimanere in esposizione per un dato periodo, creando una mostra permanente, un museo all’aperto, che si rinnova continuamente, con artisti non solo italiani, ma provenienti dalla Germania, Francia, Belgio. Parlai già 15 anni fa con l’allora presidente della Camera di Commercio, con l’assessore competente in materia, ma non hanno inteso né capito il mio proposito. Ho quindi recentemente riproposto l’idea a Tosi, che era interessato al mio progetto e lo avrebbe realizzato, insieme ad un’altra idea da me proposta ovvero quella di creare borse di studio per giovani dell’ultimo anno d’accademia, scultori, dando loro la possibilità di lavorare due anni in fonderia, così da tramandare il mestiere alle nuove generazioni, ma purtroppo Tosi ha perso le elezioni e questi propositi sono naufragati”.

Torniamo al suo lavoro. Come nasce un’opera?

“Io non ho mai fatto opere gratuite, nel senso che non ho mai fatto quelli che io chiamo “soprammobili”. Ogni mia opera nasce per un bisogno “di dire”, che erano frutto del mio vissuto. Non sono mai stato il pittore o lo scultore che lavorava per vendere, non ho mai avuto questa mentalità. Avevo la necessità (anche lavorando sotto committenza), di interpretare a modo mio.

Questo lo ha detto molto bene Vittorio Sgarbi in un articolo che mi fece su “il Giornale” a mia insaputa, un’analisi come non aveva mai fatto nessuno. La mia è una vita a rischio, lo è stata da sempre, e lui lo ha colto. Non ho mai potuto allentare la presa, proprio perché ho sempre realizzato opere particolari. Per questo mi paragona ai grandi espressionisti tedeschi, austriaci, con una lettura di me più chiara di quella che potrei dare io stesso. Mi ha dato quasi fastidio, in senso figurato ovviamente, perché mi ha fatto sentire scoperto. Le mie opere sono tutte drammatiche, io ricordo che Bacon diceva: “Ho sempre sognato di dipingere un sorriso, non ci sono mai riuscito”. Non lo so… io mi sforzo a dipingere, a disegnare, a modellare, dei sorrisi, ma purtroppo la vita è drammatica”.

Ci può fare un esempio concreto della nascita di una sua opera?

“Ecce Mater Dulcissima è una scultura in bronzo, che realizzai perché fui invitato dal Vaticano per i 25 anni di pontificato di Giovanni Paolo II, in una grande mostra al Pantheon: 25 artisti per 25 anni di pontificato. C’era Picasso, c’era Dalì, e c’ero anche io. Il tema da rispettare era Maria, per via della devozione di papa Wojtila per la Vergine. Non avevo mai realizzato una Maria, ed entrai in una profonda riflessione circa l’interpretazione che volevo dare a questa nuova commissione. Pensai a mia madre, che era morta un anno prima, dopo 8 anni di Alzahimer. Una donna stupenda, che si era ridotta come un uccellino sulla sedia a rotelle, aveva bisogno di tutto. Pensai allora “voglio fare mia madre sulla sedia a rotelle, la vedo come una Madonna su un trono”, e feci mamma su questa sedia a rotelle, con un melograno sui piedi spaccato, segno di donazione totale. Il melograno nel suo momento più bello si spacca muore, ma quando lo fa dona mille semi, frutti, amore. Così come mia madre che aveva dato tutto, per questo chiamai la scultura “Ecce Mater”, come “Ecce Homo”, aggiungendo però “dulcissima”.

“Nell’opera mia madre accarezza, come ultimo gesto, la maschera del mio volto, che per metà è il mio volto, e per metà è già un teschio. La morte di mia madre è stata in parte anche la mia. Quindi vede come nascono le opere? Nascono così, da un bisogno. Ero stato invitato a fare una Madonna, avrei potuto farlo, ma ho visto Maria Madre in mia madre.  

Sono arrivato a 77 anni e ho vissuto la mia vita pienamente. Mi guardo indietro e vedo le mie opere in tutto il mondo, in Australia, in Argentina, in Canada, negli Stati Uniti… mai come ora mi è chiaro che esse sono parte di un vissuto del quale protagonisti sono le persone, le relazioni, le azioni anche di vita quotidiana. Sono il prodotto di una vita vissuta nella semplicità del dare un valore assoluto al mio vissuto”.

Nella drammaticità delle sue opere quindi, lei alleggerisce il peso che paga per la sua sensibilità, quasi liberandosene in parte?

“Si, il mio lavoro è stato espressione, ed anche una valvola di sfogo, trasformo il brutto in bello. Sono affascinato dalla figura del Cristo, non son mai stato un chierichetto, ma la figura del Cristo che cade e si rialza, e poi cade ancora e si rialza, con questa sua capacità di donarsi totalmente, mi ha sempre affascinato. L’umanità del Cristo. Ed infatti di cristi ne ho fatti molti”.

Siamo al termine della nostra intervista. Quale messaggio  vuole rivolgere ai giovani artisti?

“Ai giovani artisti dico sempre una cosa, sconvolgendoli totalmente. Si presentano con cose che si possono definire “arredamento”. Cerco loro di far capire che devono mettere nelle loro opere sangue, sangue. L’artista deve mettere il proprio sangue, Manzù diceva che una scultura funziona che lo scultore riesce a mettere nel bronzo almeno una goccia del proprio sangue. Questo mi hanno insegnato, e questo cerco di tramandare a chi verrà dopo di me”.

(Photo credit: Francesco Cozza Caposavi Vesmile)

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