Variante indiana: cosa dicono gli esperti

Massimo Andreoni, Direttore scientifico della Società italiana di malattie infettive e tropicali e Primario di Infettivologia al Policlinico di Tor Vergata di Roma spiega: “La variante indiana del covid ci preoccupa come tutte quelle che appaiono nel mondo e di cui sappiamo poco. E in questo momento di riaperture e zone gialle dobbiamo avere la massima attenzione e capire tre cose: se è più trasmissibile rispetto al ceppo originale, se è più letale e se resiste ai vaccini”.

Andreoni sottolinea: “Il virus ancora non si è stabilizzato e si modifica e può evidentemente far partire nuove varianti. Dobbiamo tracciare e monitorare per individuarlo in anticipo”.

La comunità indiana in Italia è molto numerosa, quindi l’infettivologo consiglia che se queste persone sono state in India recentemente o hanno avuto contatti stretti con persone tornate nelle ultime 2-3 settimane,  nel caso di sintomi occorre che si sottopongano a un tampone e che si segnalino alle Asl o al medico di famiglia.

La microbiologa Gismondo sulla variante indiana

“Dobbiamo abituarci ad avere sempre nuove varianti di Sars-CoV-2. Il coronavirus pandemico ha cominciato a mutare dalla sua prima comparsa, è un virus a Rna e continuerà a mutare”. Sostiene Maria Rita Gismondo, microbiologa dell’ospedale Sacco di Milano. “Un mutante ancora da studiare, osserva,  perché al momento non sappiamo assolutamente niente di certo”.

La microbiologa aggiunge: “Stiamo approfondendo le ricerche per capire meglio cosa questa variante possa comportare. L’attuale situazione dell’India non può essere correlata esclusivamente a una variante che peraltro nel Paese asiatico sta circolando nel 10% dei casi. Bisogna continuare a osservare il virus, continuare a studiare le varianti che ci propone ed eventualmente aggiornare i vaccini a mano a mano che il virus cambia, cosa che è già stata decisa e su cui le aziende produttrici sono già impegnate”.

Cosa dicono gli esperti

L’immunologo Mauro Minelli, Responsabile per il Sud della Fondazione italiana di Medicina personalizzata, dichiara: “Il punto, come per altri precedenti analoghi, rimane sempre quello: per avere certezze bisognerebbe sequenziare almeno l’1% dei casi, il 5% secondo i Centers for Disease Control and Prevention. Ma visto che la sorveglianza genomica non la si fa, nel merito della questione, ovvero se la variante indiana debba davvero preoccuparci, al momento dovremmo più correttamente concludere che non lo sappiamo”.

Minelli sottolinea che: “Con i dati attualmente disponibili a me pare improprio parlare di variante indiana. Nella realtà dei fatti, i genomi indiani sono pochissimi (circa 600). Questo ovviamente non esclude che l’esplosione di nuovi casi sia legata a qualche evoluzione, visto che sono state recentemente individuate un paio di mutazioni nuove nella proteina Spike. Ma affermare con certezza un nesso di causalità mi pare al momento piuttosto ardito, soprattutto in considerazione del fatto che quelle che ci sono possono abbondantemente giustificare ciò che sta accadendo”.

 Fabrizio Pregliasco, virologo dell’università Statale di Milano,  a proposito della variante indiana di Sars-CoV-2, ha detto: “Di sicuro ci piace poco perché ha due mutazioni nella proteina Spike, l’uncino che il coronavirus utilizza per attaccare le cellule bersaglio che rendono più facile l’inserimento all’interno dell’organismo. Tuttavia è necessario fare ancora alcune valutazioni su questo mutante virale”.

Precisa Pregliasco: “Da un lato bisognerà capire se e quanto questa variante è più contagiosa rispetto al virus originale. E poi sarà necessario chiarire se sfugge ai vaccini e da questo punto di vista sembrerebbe, in particolare da uno studio israeliano sul vaccino Pfizer, che una capacità di protezione, seppur ridotta, ci sia. Questo rilancia la fondamentale esigenza di procedere il più velocemente possibile con le vaccinazioni”.


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